L’articolo 123 del Codice di Procedura Penale era strumento complementare all’uso del carcere come camera di tortura

L’agenzia investigativa Octopus ha svolto spesso indagini penali difensive in favore di condannati innocenti che si erano autoincriminati a causa dell’Art. 123 CPP
L’agenzia investigativa Octopus ha svolto spesso indagini penali difensive in favore di condannati innocenti che si erano autoincriminati a causa dell’Art. 123 CPP

La recente riforma del Processo Penale resta una riformina, secondo il mio modesto parere da titolare di agenzia investigativa autorizzato alle indagini penali difensive. Però, ha apportato un miglioramento importante, modificando l’Articolo 123 del Codice di Procedura Penale che consentiva all’Autorità giudiziaria di ascoltare i detenuti su loro richiesta e accoglierne le istanze, senza che questi fossero assistiti dal loro avvocato né avvisati di questa possibilità. Praticamente, secondo l’esperienza delle indagini penali difensive trattate dalla mia agenzia investigativa Octopus, l’articolo 123 CPP era strumento complementare all’uso del carcere come camera di tortura nello stile di certi simpatizzanti del “momento magico dell’arresto”.

Immaginatevi un sospettato, la cui posizione precipitava rapidamente in quella di indagato. I magistrati, a torto o a ragione (o meglio: in buona o malafede), decidevano che la carcerazione preventiva era d’uopo, pertanto arrestavano l’indagato.

Ora i casi erano due: l’arrestato era un duro, magari un pregiudicato di lungo corso, pertanto il carcere gli scivolava addosso come una doccia tiepida e sapeva che qualsiasi iniziativa avesse deciso di prendere, sarebbe stato meglio consultarsi col suo avvocato di fiducia.

          Nel secondo caso l’arrestato era un incensurato o un soggetto fragile. Il carcere lo sconvolgeva, diventava una tortura. Gli veniva assegnato un avvocato d’ufficio, ma lui non sapeva come funzionavano esattamente queste cose. La prigione faceva insorgere in lui una sorta di sindrome di Stoccolma nei confronti dei secondini che lo avevano in custodia e finivano col fidarsi più di questi che del proprio avvocato (o del proprio investigatore privato). Atteggiamento prevedibile: l’avvocato lo vedeva ogni tanto, i secondini tutti i giorni (molti di essi erano probabilmente spinti da sincero desiderio di supportare moralmente il detenuto e far emergere la verità sulla vicenda che lo aveva portato in carcere).

A un certo punto, quando il carcere si faceva insopportabile, per far cessare quella tortura il detenuto prendeva l’iniziativa di parlare o di confessare o di testimoniare. Tuttavia non lo diceva al suo avvocato in grado di consigliarlo per il meglio, lo comunicava al suo “secondino confidente” che avvisava il direttore del carcere che, a sua volta, avvisava gli inquirenti assegnati al caso, che lo interrogavano all’insaputa del suo avvocato.

          Ora, tutto questo talvolta giovava alla conclusione delle indagini e al buon decorso della Giustizia, se gli inquirenti erano persone oneste e dotate intellettualmente. Spesso, invece, questo genere di “detenuti fragili” peggioravano ingiustamente la loro posizione, incappando in secondini che avrebbero voluto fare i poliziotti, in poliziotti giustizieri e in magistrati carrieristi.

          La mia agenzia investigativa Octopus in ventisette anni d’indagini penali difensive si è occupata spesso della revisione di casi giudiziari, durante i quali imputati innocenti si erano autoincriminati inconsapevolmente raggirati dall’Articolo 123 del Codice di Procedura Penale e da inquirenti non sufficientemente amanti della Giustizia.