La disperazione di un padre e gli approfittatori.

Da investigatore privato titolare dell’agenzia investigativa Octopus, che si occupò delle indagini difensive di Filippo Pappalardi, penso che lo sfortunato padre non dovrebbe fidarsi dei giornalisti. Né, tantomeno, dell’Autorità giudiziaria.
Da investigatore privato titolare dell’agenzia investigativa Octopus, che si occupò delle indagini difensive di Filippo Pappalardi, penso che lo sfortunato padre non dovrebbe fidarsi dei giornalisti. Né, tantomeno, dell’Autorità giudiziaria.

L’altro giorno ero seduto nella mia agenzia Investigazioni Octopus di Cassano d’Adda a consultare la rassegna stampa e ho letto un articolo sulla richiesta di Filippo Pappalardi di fare chiarezza sulla morte, richiesta che adesso viene improvvisamente accolta da giornalisti a caccia di scoop e criminologi in cerca di gloria.

Quando i suoi figli furono ritrovati, Filippo Pappalardi manifestò sin da subito i suoi dubbi sulla presenza nel momento dell’incidente di un terzo o quarto ragazzino e io gli dissi anche cosa avrebbe potuto fare nell’immediatezza del ritrovamento, tuttavia non mi sembra etico rivangare dopo quindici anni questi sospetti, probabilmente già allora frutto della sofferenza di un padre.

         Era il lontano 2007 quando l’Avvocatessa Angela Aliani chiamò la mia agenzia Investigazioni Octopus di Milano e l’agenzia investigativa della mia socia, Investigazioni Cyanea, per affidarci le indagini penali difensive nell’interesse di Filippo Pappalardi, arrestato con la fantasiosa accusa d’aver ammazzato entrambi i suoi due figli maschi, Ciccio e Tore, scomparsi nel giugno del 2006 perché caduti accidentalmente in una cisterna di una casa abbandonata.

         Appena accettammo l’incarico da investigatore privato dell’agenzia Investigazioni Octopus rimasi senza parole. L’ipotesi accusatoria della Procura di Bari era insensata e grottesca: Filippo Pappalardi avrebbe sorpreso i due figli bagnati da capo a piedi per aver giocato ai gavettoni con altri amici e avrebbe mollato un violento schiaffone a uno dei due, uccidendolo per sbaglio. E, quindi, invece di disperarsi o di correre in pronto soccorso, avrebbe deciso di ammazzare anche l’altro figlio oramai diventato un testimone scomodo (manco si trattasse di un criminale coi suoi accoliti).

Bastava chiedere in giro per sapere che Filippo Pappalardi adorava i suoi figli e che, per quando burbero, non era un violento. E che se ne avesse ucciso uno per sbaglio, probabilmente si sarebbe tolto la vita dalla disperazione.

Tuttavia il delirio dell’Accusa non finiva qui: siccome non si trovavano i corpicini dei bambini, gli “investigatori” della Procura di Bari sostenevano che Filippo Pappalardi avesse chiesto aiuto alle sue sorelle, tutte pie donne e zie affezionatissime di Ciccio e Tore, per depezzare e smaltire i cadaverini dei bambini appena ammazzati brutalmente.

         Per dimostrare la delirante accusa contro Filippo furono eseguite intercettazioni telefoniche ad oltranza su tutta la famiglia Pappalardi, senza uno straccio di riscontro. Salvo qualche fantasiosa interpretazione, come quando il signor Pappalardi diede del “trmon” a un amichetto dei figli e fu erroneamente trascritto “traditore”, ipotizzando che Filippo Pappalardi avesse paura di essere tradito da un terzo testimone che non era riuscito a eliminare.

Oppure quando Filippo andò a cambiare l’acqua ai suoi cani che nella confusione delle ricerche dei figli scomparsi aveva trascurato, dicendo “Mo’ devo portare l’acqua ai cani, che da sab… da domenica che non ci vengo qua, dovessero morire pure i cani qua!”. E la Procura interpretò quel “pure” come conferma che Pappalardi sapesse fossero morti anche i figli, perché li aveva uccisi lui.

         Potrei andare avanti pagine e pagine a descrivere le “indagini dell’assurdo” portate avanti dalla Procura di Bari contro Filippo Pappalardi, sono state talmente tante le assurdità che la socia della mia agenzia investigativa ci scrisse un libro. Le indagini difensive di noi investigatori privati assomigliavano a quando tenti di svuotare il mare con un cucchiaio tra strapotere dei procuratori, imparità tra Accusa e Difesa, impunità dei magistrati e linciaggio mediatico.

         Si sa che il giornalismo italiano è servile e credulone. Servile, perché non svela mai sino in fondo le magagne delle nostre Istituzioni e Autorità; credulone o finto credulone, perché preferisce sbattere il mostro in prima pagina, per vendere più copie (adesso si dice “diventare virale”), piuttosto che raccontare la verità nuda e cruda.

Ma con Pappalardi i media toccarono il fondo, alleandosi con la Procura nel dipingere Filippo Pappalardi come un mostro. Alcuni così detti “giornalisti” arrivarono a provocare il povero padre disperato per poi filmare la sua giusta reazione rabbiosa a dimostrazione che fosse un violento.

Pappalardi non dovrebbe fidarsi dei giornalisti, né tantomeno dell’Autorità giudiziaria, perché, se i suoi bambini non fossero stati trovati casualmente da Michele Dinardo nella cisterna de “La casa delle cento stanze” in via Giovanni Consolazione, adesso sarebbe ancora in galera per omicidio, dipinto come un mostro.